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Testo di Massimo Libardi
Frontiere della Memoria, ArteSella, 2009

italian below


Giampietro Agostini - Frontiere della Memoria - paesaggio

Border landscape

Nature does not behold landscape. What we call landscape is the result of man's action on nature or at least the result of his look, filtered by culture and memory. The ancient world did not have a word for landscape. The term appeared at the beginning of the 16th Century as an adjective in the expression 'landscapist' (pittore paesaggista). Etymology has it derive from the corresponding Italian word, 'paese' – village, of the Latin 'pagus', following the French 'pays'/'paysage', literally "... an extension of a village – 'paese'". However, it is interesting to see also the stem of 'pagus', which refers to the verb 'pango', that is to say 'to fix, to plant, to establish (in the land)', the establishing of borders.
The border of human environment in the mountains has been the village and its extensions for centuries: the territory made use of for migration to mountain pastures or as pastureland for sheep and goats – space that was often bordered off by crosses that enclosed it and defended it from strangers who lived in inhospitable places in the vicinity of the mountain peaks. This is where the ancient pagan divinities had retired, by then languished and transformed into fiendish figures. These spaces were nameless in apposition to the plentiful toponyms of the areas concerning human activity and there were no footpaths over their territory. The shepherds rarely made their way through them. At the most, one could come across a daring hunter or a shepherd looking for stray animals.
This situation changed rapidly when World War I broke out and for the first time had hundreds of thousands of men spend three long years in inhospitable and inaccessible places, often in extreme environmental conditions. Trenches, defensive works, huts, shelters, roads and paths dotted the territory and when silence once again reigned the landscape had been greatly modified. Years go by and the natural conditions, year after year, contribute in blotting out those works of man, at times turning them into nothing but faint traces of the past. At present the territory is crossed over as if it were a set of archives in the open. Culturally orientated hiking nowadays allows for the reconstructing of the stories of the men and the detachments through remains.
The photographs of Giampietro Agostini amaze us because they refer to a completely different context. Their attempt is not to reproduce the landscape that the soldiers describe in their letters, diaries and memoirs, or the landscape teeming with men and animals during the construction of roads, footpaths, shelters, huts and trenches. Their looks and emotions, as well as their fears and their bliss, do not turn up here. It is but the landscape as we see it today, where the works of man have been swallowed up by nature: the roads are now footpaths, the rubble walls nothing else but stones, the huts in shambles. However, the work of time and nature has not been homogeneous and so, in the landscapes high up made up of meagre pastures and vertical deserts of stone, solitary crystal clear lakes and shambles, as far as the eye can see, we can view parts of flagged roads, stumps of walls and fragments of trenches.
Mr Agostini's eyes are those of a walker who knows nothing of the war that stained the mountains with blood. When, on turning round a bend along a footpath or after having crossed a mountain pass, these structures come into view unexpectedly, they look like ruins of a bygone civilization that emerge from a period we cannot make out.
Where the vastness of space has swallowed up the work of man, where traces have become fainter and fainter and can be distinguished only at a second glance, here is what seems to be the work lost in the landscape of an artist of art/nature. Reminding us of the presence of thousands of men in the mountains there is today a mere and fleeting sign on the land, as witnessed by Andy Goldsworthy or David Nash. It seems as if Mr Agostini would like to replace the landscape with the landscape for memory, to draw attention to nature rather than to the work of man or to the traces teeming with history. This is why his images give one the sensation of being on the border: a border which is not the belligerents' but the border in between memory and oblivion, history and nature, the intense period of the war years and the unascertained time of the mountains. Border landscapes which are borders of memory at the same time.


Paesaggio di frontiera

Il paesaggio non esiste in natura. Quello che chiamiamo paesaggio è un prodotto dell'azione dell'uomo sulla natura o almeno un prodotto del suo sguardo, filtrato dalla cultura e dalla memoria. Il mondo classico non ha un nome per il paesaggio. Il termine compare all'inizio del Cinquecento come aggettivo nell'espressione "pittore paesaggista". L'etimologia lo fa derivare da "paese", in latino "pagus", ricalcando il francese pays/paysage, letteralmente «estensione di paese». Ma è interessante vedere anche la radice di "pagus", che rimanda al verbo "pango", ovvero «fissare, piantare, stabilire (nella terra)», stabilisco dei confini.
Per secoli il confine dello spazio umano sulle montagne è stato il villaggio e le sue estensione: il territorio usato per la monticazione o per il pascolo di pecore e capre. Uno spazio spesso delimitato da croci che lo recingevano e lo proteggevano dalle presenze estranee che abitavano le zone inospitali in prossimità delle vette. Qui si erano ritirate le antiche divinità pagane, ormai depotenziate, trasformate in figure demoniache. Questi spazi non avevano nomi in contrasto con la ricca toponomastica delle zone interessate all'attività degli uomini, e non erano attraversati da sentieri, i malghesi li percorrevano raramente e vi si poteva incontrare al massimo qualche temerario cacciatore o un pastore in cerca di bestie disperse.
Questa situazione cambia rapidamente con lo scoppio della Grande Guerra che per la prima volta porta centinaia di migliaia di uomini a trascorrere tre lunghi anni in luoghi inospitali e impervi, spesso in condizioni ambientali estreme. Vengono costruite trincee, fortificazioni, baracche, ricoveri, strade, sentieri e quando sulle vette ritorna il silenzio il paesaggio è fortemente modificato. Il passare degli anni e le condizioni naturali anno dopo anno contribuiscono a cancellare quelle opere, trasformandole talvolta in labili tracce. Ora questi territori sono percorsi come se fossero un archivio all'aperto e si è venuto formando un escursionismo colto che dai resti ricostruisce le storie degli uomini e dei reparti.
Le foto di Giampietro Agostini ci stupiscono perché si situano in un contesto completamente diverso. Non cercano di riprodurre quello scenario che i soldati descrivono nelle lettere, nei diari, nella memorialistica, quel paesaggio brulicante di uomini, di animali, intenti a costruire strade, sentieri, ricoveri, baracche, trincee. Non ritroviamo qui i loro sguardi e le loro emozioni, le loro paure e felicità. È il paesaggio come lo vediamo oggi dove le opere degli uomini sono state riassorbite dalla natura: le strade sono tornate sentieri, i muri a secco pietre, mucchi di sassi, le baracche sfasciumi. Ma l'opera del tempo e della natura non è stata omogenea e così nel paesaggio d'alta quota fatto di magri pascoli e deserti verticali di pietre, solitari laghi trasparenti e sfasciumi a perdita d'occhio, emergono tratti di strada lastricata, mozziconi di muro, spezzoni di trincea.
Il suo sguardo è quello di un camminatore che non sappia nulla del conflitto che ha insanguinato le montagne. Quando alla svolta di un sentiero o dopo aver valicato una forcella queste architetture si aprono improvvise sembrano ruderi di una civiltà scomparsa e dimenticata che affiorano da un tempo indecifrabile.
E là dove la grandezza degli spazi ha inghiottito l'opera degli uomini, dove le tracce si sono fatte più deboli e si scoprono solo a un secondo sguardo, queste sembrano l'opera persa nel paesaggio di un artista di arte natura. Della presenza di migliaia di uomini che hanno abitato le montagne oggi resta un segno sulla terra minimo e fugace come quelli compiuti di Andy Goldsworthy o David Nash.
Agostini sembra voler sostituire il paesaggio al paesaggio della memoria, richiamare l'attenzione sulla natura e non sull'opera dell'uomo, non sulle tracce dense di storia. Per questo le sue immagini danno la sensazione di sentirsi al confine: un confine che non è certamente quello dei belligeranti, ma il confine tra memoria e oblio, tra storia e natura, tra il tempo denso degli anni di guerra e il tempo sospeso della montagna. Paesaggi di frontiera che sono al tempo stesso le frontiere della memoria.