Testo di Riccardo Prina
Tracce al Museo di Varese, 1999
[...] In contrasto con la tesi sposata da altri linguaggi visivi che l'elisir della modernità sia nel caleidoscopico, nell'effervescente rifrazione e dispersione cromatica come nello specchiamento artificioso del virtuale: assurti, entrambi, a paradigma del reale, se non addirittura a linguaggio in sé e per sé, autoreferente.
Ne consegue, non meccanicamente certo, un secondo livello di lettura: sono autori la cui idea di fotografia sia luogo dove operare una rastrematura espressiva, un taglio di indagine introverso, pretesto ad analisi linguistiche raccolte, non gridate: una fotografia, in sintesi, citando Filippo Maggia in una sua recente lettura delle vicende contemporanee, "rarefatta, silente, ordinata": piuttosto che scenario dello stupefacente e del disorientante, aggredito e aggressivo, secondo le sincopi del moderno più trito.
Agostini è tra quanti di tale rarefazione si fa interprete accurato, muovendo dal recupero di lontananze affettive - è il suo Trentino il principale attore delle sue fotografie - memorie di cose non dette o scritte, filtrate in modo da darsi allo spettatore apparentemente neutre e quasi distaccate, in una sorta di veggenza carica di aspettative e insieme di investimenti emozionali.
Non a caso era Attese, il titolo originariamente pensato per questo ciclo che si svolge ormai da alcune stagioni; Tracce, come è stato poi identificato dall'autore, chiarifica come di questa attesa ci fossero già i segni premonitori, i segni o le memorie che soli rendono possibile l'attendere.
Tracce di e su questa zona intima di Agostini, una sorta di heimat, una patria del cuore in cui si manifestano i gangli di movimenti lentissimi, i riti e le opere naturali: impercettibili, evanescenti.
Ogni scatto è un fotogramma di un film racchiuso in una zona di confine scura, una griglia nera e definitiva che sfuma in una zona di grigio slabbrato, una cornice che è frattura isolante dagli accadimenti esterni e insieme cellula di senso.
Sancisce infatti, questo scarto, una solidità di separazione concettuale nella dimensione narrativo-memoriale della ricerca: a dire di una fotografia che dalla concretezza fisica grumosa del paesaggio - dalla terra e dall'acqua e dal diffidente incontrarsi scontrarsi amalgamarsi l'una nell'altra - da cui viene ispirata, assurge a zona franca, l'in sé distillato del fenomeno che attiva la sua attenzione.
Sulla via dell'astratto, impostata com'è su equilibri ineludibili e rigorose scansioni e una, apparentemente naturale, restituzione bidimensionale dello stondamento prospettico: ma immersa, d'altro canto, specie laddove l'orizzonte appare protagonista a separare anche cromaticamente le campiture, in una spiazzante "cielo di collodio vuoto", direbbe Rosalind Krauss.
Distanti e insieme avvolgenti le fotografie di Giampietro Agostini rivelano o celano, a seconda del tipo di aspettativa emotiva con cui le si guarda, un mondo di inaspettata primitività e insieme di complessità segnica. Vicinanze quasi famigliari e lontananze ambigue.
Ed è questo che le rende evocative, in balia esse stesse di uno stupore sospeso tra nostalgia di forma e implacabili avvertimenti di precarietà.